Green Plastic FAQ - Plastec Srl Brescia - Plastic Technology
507
page-template-default,page,page-id-507,ajax_fade,page_not_loaded,,qode-title-hidden,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-14.2,qode-theme-bridge,disabled_footer_bottom,wpb-js-composer js-comp-ver-5.4.7,vc_responsive

11

12

13

14

15

16

17

18

19

11

Green Plastic FAQ

1 – Cosa sono i biopolimeri? (anche chiamati “plastiche green”, “eco plastiche”, “bio-plastiche” ecc.)

Affinché una resina termoplastica possa essere definita biopolimero (sinonimo di bioplastica) è necessario rispetti almeno uno dei seguenti requisiti:
A. sia materiale plastico derivato da fonti rinnovabili
B. sia materiale plastico biodegradabile e compostabile (secondo normativa EN 13432, ASTMD 6400 o standard similari)
(fonte: European bioplastics)

Il focus è quindi posto sull’origine del materiale di base usato (dall’alto al basso) e sulla biodegradabilità del prodotto finale (da destra a sinistra)

I quattro settori che si vengono così a delineare riassumono l’intero spettro delle PLASTICHE VERGINI disponibili. In particolare:

-nel settore 1 trovano posto i 368 milioni di tonnellate di plastiche tradizionali prodotte ogni anno

-nel settore 4 trovano posto i polimeri “biobased”, ovvero plastiche del tutto uguali ad alcune tipologie di quelle presenti nel settore A, ma il cui monomero è ottenuto da fonti rinnovabili (come, ad esempio, l’olio di ricino ed altri oli vegetali).
Ci sarebbe qui da valutare se sia opportuno destinare un ettaro di terreno alla coltura delle canne da zucchero necessarie per la produzione di 3.000 kg di politene avendo come beneficio emissioni negative di CO2 in fase di produzione (la famosa Carbon Footprint) ma sottraendo superfice di coltura alle derrate alimentari o ancor peggio ricavando nuove superfici deforestando.
È comunque al momento possibile soprassedere su questo dilemma etico in quanto la scarsissima disponibilità di questi materiali ne rende pressoché impossibile l’utilizzo, se non per produzioni di nicchia (nel 2020 ne sono state prodotte 884.000 tonnellate e si prevede per i prossimi 5 anni un misero incremento di poco superiore al 20%)

-nei settori successivi troviamo i materiali biodegradabili/compostabili che possono essere ottenuti dall’amido di mais, dalla barbabietola da zucchero, dalle patate eccetera in 3 e dal petrolio in 2.
Anche per le plastiche biodegradabili/compostabili la capacità produttiva è estremamente limitata fermandosi a 1.227 milioni di tonnellate con un incremento previsto attorno al 50% nei prossimi 5 anni.

Tornando ai requisiti di base per la definizione di un biopolimero (plastica derivata da fonti rinnovabili e plastica biodegradabile/compostabile) risulta evidente come esclusivamente i materiali che trovano allocazione nei settori 2, 3 e 4 possano fregiarsi della specifica etichettatura che li identifica e promuove (rilasciata da enti certificatori accreditati).

2 – Possono i biopolimeri sostituire le plastiche tradizionali?

Un solo dato potrebbe bastare per rispondere alla domanda: circa 370 milioni di tonnellate di plastiche tradizionali prodotte ogni anno contro una capacità produttiva di biopolimeri che fra 5 anni si prevede sarà di 3 milioni di tonnellate

A questo si aggiunga una riflessione: perché i materiali bio-based (ovvero i materiali identici alle plastiche tradizionali ma originati da monomero proveniente da fonti rinnovabili, quelli che occupano il settore 4), dovrebbero essere considerati eco-sostenibili?

La nobilissima campagna di sensibilizzazione sull’uso responsabile della plastica è focalizzata sull’impatto degli scarti post-consumo ed i materiali bio-based sono identici ai tradizionali se non per l’origine non fossile delle fonti; in altre parole, gli scarti post consumo che producono sono identici a quanto realizzato con materie plastiche tradizionali derivante dal petrolio.
Come si è già chiaramente esposto, è encomiabile che la carbon footprint della produzione delle plastiche bio-based sia negativa, ma dubbi sul complessivo impatto ambientale di queste produzioni comincia a farsi strada nell’opinione pubblica, anche quella meno specializzata. Un esempio è dato da questo passaggio tratto da un articolo de ilFattoQuotidiano.it a commento del rapporto Greenpeace “Il Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica”
“Tra l’altro, la maggior parte della plastica a base biologica proviene da colture agricole che, oltre a competere con la produzione di alimenti, fanno cambiare l’uso del suolo, con un aumento delle emissioni inquinanti provenienti da questo settore, oggi causa principale di deforestazione e distruzione degli habitat naturali, nonché responsabile di un quarto delle emissioni di gas serra.”

Per avere i 2,11 milioni di tonnellate di biopolimeri prodotti nel 2020 (dei quali le plastiche bio-based rappresentano poco meno del 42%) sono stati impiegati 0,70 milioni di ettari di terreno (fonte: European bioplastiscs). Per produrre 368 milioni di tonnellate di bioplastiche (pari al fabbisogno mondiale di plastica) sarebbero necessario coltivare 122 milioni di ettari di terreno.

Una seconda riflessione: “ipotizzando” che le plastiche bio-based non rappresentino la soluzione all’inquinamento ambientale post-consumo, potrebbe la risposta al problema essere trovata nelle plastiche biodegradabili/compostabili (quelle che occupano i settori 2 e 3)?
Purtroppo, le differenti caratteristiche meccaniche, termiche, strutturali, estetiche e via di seguito di questa tipologia di materie prime non le rende AL MOMENTO né sostitutive né complementari alle plastiche tradizionali.
Le plastiche biodegradabili/compostabili, per loro intrinseca natura e motivo d’essere (ovvero il dissolversi in un ragionevole lasso di tempo), non possono essere lavate in un lavastoviglie, hanno limitata resistenza alla temperatura, hanno caratteristiche meccaniche che non soddisfano la maggior parte degli impieghi ai quali sono destinate le plastiche tradizionali eccetera.
Le plastiche biodegradabili/compostabili trovano ATTUALMENTE la loro corretta coniugazione nella realizzazione di articoli usa e getta (anche qui a patto che trovino il loro fine vita in un composter industriale, in quanto se un articolo in PLA viene abbandonato nell’ambiente o viene gettato assieme alle plastiche tradizionali, non troverà la temperatura costante di 60°C, l’umidità controllata e l’apporto di opportuni microrganismi che ne permetteranno la biodegradazione in 6 mesi).

3 – Come possono essere “fatti sparire” 368 milioni di tonnellate di plastica?

Come abbiamo già avuto modo di notare, la campagna di sensibilizzazione sull’uso responsabile della plastica è focalizzata sull’impatto degli scarti post-consumo.
La presa di coscienza ha portato ad una responsabilizzazione, ed è per questo apprezzabile e benemerita, ma è scaturita da un impulso non corretto, ovvero “la vista” del rifiuto plastico.
Mille bottiglie che galleggiano in mezzo all’oceano sono impressionanti da vedere ma, per assurdo, sono meno pericolose per la salute degli esseri viventi e per l’ambiente rispetto a certe modalità di trattamento che ne permetterebbero l’occultamento. Ben più pericoloso è infatti ridurre la plastica in microparticelle o sotterrarla per nasconderla alla vista.
Esiste infatti un’ampia disponibilità di additivi progettati per “imitare” la biodegradazione realizzando la cosiddetta oxo-frammentazione, ovvero la riduzione delle plastiche tradizionali in microparticelle (chiamate microplastiche). Questi additivi, che vengono mescolati alla materia prima in fase di trasformazione, portano ad una mera micro-frammentazione del prodotto che rimane, invisibile all’occhio, nell’ambiente.
Alla stessa stregua deve essere considerata la “soluzione”, purtroppo ampiamente praticata, di togliere gli articoli in plastica dalla nostra disponibilità visiva semplicemente sotterrandoli.

Per rispondere alla domanda, il modo migliore per fare sparire i 368 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno sono prodotti è: non produrli.
Non si intende con questo strizzare l’occhio a banali slogan quali l’irrazionale “plastic free”; si intende invece puntare a limitare l’impiego di materie prime vergini reimpiegando la plastica già disponibile sotto forma di articoli giunti al loro fine vita.

È facile reperire una quantità impressionante di letteratura e documentazione a supporto di questa teoria, in primis quanto prodotto dalla Ellen MacArthus Foundation ma, per desiderio di sintesi, risulta efficace fare riferimento al documento prodotto nel gennaio 2018 dall’apposita Commissione Europea incaricata di redigere la “Strategia europea per la plastica nell’economia circolare”, primo documento adottato in tal senso dall’Unione Europea.

Verificato che “Si stanno sviluppando anche tipi alternativi di materie prime (ad esempio, la plastica biologica o la plastica prodotta da biossido di carbonio o metano), che offrono le stesse funzionalità della plastica tradizionale con un impatto ambientale potenzialmente inferiore, ma al momento rappresentano una piccolissima fetta del mercato.”, nel documento vennero individuati 4 linee guida finalizzate ad incrementare l’impiego della plastica riciclata:

  • migliorare la progettazione e sostenere l’innovazione per rendere più semplice il riciclaggio della plastica e dei prodotti di plastica;
  • ampliare e migliorare la raccolta differenziata dei rifiuti di plastica per garantire all’industria del riciclaggio fattori produttivi di qualità;
  • potenziare e modernizzare la capacità di selezione dei rifiuti e riciclaggio dell’UE;
  • creare mercati sostenibili per la plastica riciclata e rinnovabile.

Emblematico, ad avvalorare l’idea che il riciclo di plastica sia il metodo individuato dalla Unione Europea per affrontare il problema dell’inquinamento da plastica, è il paragrafo dedicato alle azioni da intraprendere per “stimolare la domanda di plastica riciclata”.


Stimolare la domanda di plastica riciclata
La scarsa domanda di plastica riciclata è un altro ostacolo importante alla trasformazione della catena del valore della plastica. Nell’UE la plastica riciclata è utilizzata poco nei nuovi prodotti, e il suo utilizzo è spesso confinato a prodotti di scarso valore o di nicchia. Le incertezze circa gli sbocchi di mercato e la redditività frenano gli investimenti necessari per potenziare e modernizzare la capacità di riciclaggio della plastica nell’UE e stimolare l’innovazione. I recenti sviluppi nel commercio internazionale, che limitano le principali rotte di esportazione dei rifiuti di plastica raccolti per essere riciclati, rendono più urgente la necessità di sviluppare un mercato europeo della plastica riciclata.
Una delle ragioni dello scarso utilizzo della plastica riciclata va rintracciata nelle apprensioni di numerosi marchi e fabbricanti, i quali temono che la plastica riciclata non possa rispondere alla loro esigenza di disporre di volumi elevati di materiale affidabile con specifiche di qualità costanti. La plastica è spesso riciclata da piccole strutture prevalentemente regionali; un ampliamento di scala e la standardizzazione contribuirebbero a un migliore funzionamento del mercato. In questa prospettiva, la Commissione si impegna a cooperare con il Comitato europeo di normalizzazione e con l’industria per sviluppare standard di qualità per i rifiuti di plastica differenziati e la plastica riciclata.
Una maggiore integrazione delle attività di riciclaggio nella catena del valore della plastica è essenziale e potrebbe essere favorita dai produttori di materie plastiche nel settore chimico. La loro esperienza e le loro competenze tecnologiche potrebbero contribuire a raggiungere standard di qualità più elevati (ad esempio per applicazioni alimentari) e ad aggregare l’offerta di materie prime riciclate.
In alcuni casi anche la composizione chimica della plastica riciclata e la sua idoneità per gli usi previsti possono rappresentare degli ostacoli. La contaminazione accidentale o la mancanza di informazioni circa l’eventuale presenza di sostanze chimiche problematiche costituisce un problema per diversi flussi di rifiuti di plastica. Queste incertezze possono anche scoraggiare la domanda di plastica riciclata per un certo numero di nuovi prodotti con specifici requisiti di sicurezza. Il lavoro della Commissione sull’interazione fra le disposizioni in materia di sostanze chimiche, prodotti e rifiuti intende affrontare alcuni di questi problemi e, pertanto, contribuirà direttamente alla maggiore diffusione della plastica riciclata. Inoltre, nell’ambito del programma Orizzonte 2020, l’UE finanzierà progetti di ricerca e innovazione su una migliore identificazione dei contaminanti e sulla decontaminazione dei rifiuti di plastica.
Per quanto riguarda l’uso della plastica riciclata in applicazioni che prevedono il contatto con alimenti (ad esempio, bottiglie per bevande), l’obiettivo è dare priorità a standard elevati in materia di sicurezza alimentare, fornendo nel contempo un quadro chiaro e affidabile per gli investimenti e l’innovazione in soluzioni improntate all’economia circolare. In quest’ottica, la Commissione si è impegnata a finalizzare rapidamente le procedure di autorizzazione di oltre cento processi di riciclaggio sicuro. In collaborazione con l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, essa valuterà inoltre la possibilità di utilizzare in modo sicuro altri materiali di plastica riciclata, ad esempio attraverso una migliore caratterizzazione dei contaminanti.
I volumi e la qualità da soli, tuttavia, non bastano a spiegare la modesta quota di mercato della plastica riciclata. Ad ostacolare una maggiore diffusione del contenuto riciclato contribuiscono anche la resistenza al cambiamento tra i fabbricanti di prodotti e la scarsa consapevolezza dei vantaggi aggiuntivi offerti dalla plastica riciclata a ciclo chiuso.
L’Europa vanta diversi esempi di partenariati commerciali di successo tra produttori e imprese di riciclaggio della plastica (ad esempio, nel settore automobilistico), da cui risulta che i problemi di quantità e qualità possono essere superati con gli investimenti necessari. Per contribuire ad affrontare questi ostacoli, e prima di prendere in considerazione l’azione normativa, la Commissione sta avviando una campagna per promuovere l’assunzione di impegni a livello di UE al fine di garantire che, entro il 2025, dieci milioni di tonnellate di plastica riciclata vengano utilizzati per la realizzazione di nuovi prodotti immessi sul mercato dell’UE. Per conseguire in breve tempo risultati tangibili, la campagna si rivolge a soggetti sia privati che pubblici, i quali sono invitati a presentare impegni concreti entro giugno 2018. I dettagli sono forniti nell’allegato III.
Per sostenere ulteriormente l’integrazione dalla plastica riciclata nel mercato, la Commissione esaminerà anche interventi settoriali più mirati. Ad esempio, determinate applicazioni nel settore edilizio e in quello automobilistico sembrano avere un buon potenziale per la diffusione dei materiali riciclati (ad esempio isolanti, tubazioni, mobili per esterno o cruscotti). Nel contesto delle valutazioni in corso e future delle norme UE sui prodotti per l’edilizia e i veicoli fuori uso, la Commissione esaminerà azioni specifiche per promuovere tale diffusione. Nel contesto dei lavori futuri sulla direttiva sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, sarà valutato anche il ricorso a strumenti economici per premiare l’utilizzo di materiale riciclato nel settore degli imballaggi. Infine, la Commissione si adopererà per integrare il materiale riciclato nei criteri per gli appalti pubblici verdi.
Anche i governi nazionali possono ottenere importanti risultati attraverso gli incentivi economici e gli appalti pubblici. Il sistema francese ORPLAST e le nuove norme dell’Italia in materia di appalti pubblici sono due buoni esempi di quello che si potrebbe fare a livello nazionale. Analogamente, le autorità locali possono sostenere l’obiettivo della presente strategia negli acquisti di lavori, beni o servizi.

L’obiettivo della UE è giungere nel 2030 a riciclare il 50% dei 25,8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotti ogni anno partendo dall’attuale 30% (quota comunque raddoppiata negli ultimi 12 anni) e contestualmente innalzare la percentuale di impiego della plastica riciclata oggi ferma a solo il 6% della domanda totale di plastica in Europa (che è pari a 49 milioni di tonnellate)

4 – A quali condizioni la plastica riciclata è utilizzabile?

L’impiego di materiale riciclato in sostituzione del vergine può essere praticato nel momento in cui il materiale riciclato è disponibile ad un prezzo corretto, nel momento in cui soddisfa le necessità tecniche/meccaniche/estetiche della produzione e nel momento in cui è rispettoso delle normative vigenti (che si devono a loro volta adeguare).
È sufficiente indagare l’esempio offerto dal PET scarto che diventa rPET per capire come, al realizzarsi delle condizioni citate, il riciclaggio sia perseguibile sia per finalità etiche ma anche economiche.
Il fatto che la normativa italiana sul riciclo, ferma al 1973, abbia da allora introdotto 5 deroghe tutte focalizzate sul PET, ha fatto in modo che si sia sviluppato una efficiente filiera di recupero delle bottiglie da riciclare; ha permesso il nascere di aziende che si sono specializzate nei trattamenti per selezionarlo, lavarlo, rigradarlo e per eseguire tutto quanto necessario per renderlo disponibile per una nuova trasformazione. Ha in sostanza permesso che gestire le bottiglie di plastica, scarto di packaging post-consumo (che in Europa rappresenta oltre la metà dei rifiuti plastici prodotti), non sia un onere bensì una fonte di reddito. Al punto che l’Italia, come tutta l’Europa, contribuisce in maniera minima all’inquinamento degli oceani (generato da plastiche galleggianti, quali bottiglie e flaconi in PET).

I principali produttori di materia plastica hanno già creato al loro interno apposite sezioni dedicate alle plastiche non vergini giungendo a formulare una proposta organica di plastiche riciclate (esemplare il catalogo Circulen della LyondellBasell).
Se il mercato sosterrà la richiesta di materie plastiche non vergini, ciò che differenzierà un’azienda leader sarà anche la capacità di trovare materie prime seconde le migliori possibili, alle migliori condizioni economiche e con la garanzia di disponibilità continuativa nel tempo. Una sfida tutta nuova in sostanza.

5 – Cosa può fare Plastec in tutto ciò?

In seguito ad importanti investimenti sostenuti sin dal 2018, Plastec ha maturato una competenza unica nell’ambito della gestione dei biopolimeri e delle plastiche riciclate.

Nel corso del 2022 è stato esteso a livello europeo il brevetto con titolo ”PROCESSO PER LA PRODUZIONE DI ARTICOLI DI PET e rPET PER INIEZIONE E ARTICOLI OTTENUTI TRAMITE DETTO PROCESSO” con il quale proteggiamo le scoperte che ci permettono di stampare ad iniezione qualunque oggetto impiegando PET riciclato dalle bottigliette. Riusciamo infatti, grazie a tale processo, a stampare beni durevoli superando i limiti tecnici che hanno da sempre limitato l’impiego dell’rPET alla realizzazione di packaging attraverso le tecniche dello stiro-soffiaggio o della termo-formatura.

Abbiamo elaborato e registrato protocolli grazie ai quali possiamo impiegare nella produzione di articoli destinati al contatto alimentare materiali derivanti da scarti pre-consumo.

Abbiamo siglato contratti di licenza che ci permettono l’impiego di marchi registrati quali:

Abbiamo registrato marchi come byPP® o byPST® che contraddistinguono le materie prime seconde idonei al contatto con alimenti che impieghiamo.

Alcuni esempi:

Gadget realizzato in plastica biodegradabile/compostabile per Coop in occasione del 70° anniversario di fondazione
Vassoietti realizzati per Chef Express in byPP®
Ciotole per animali realizzate in rPET per United Pets